Fra
verismo e classicismo. Accademia e modernità nell’opera
di Vito Vaccaro
A quasi cinquant’anni dalla
morte di Vito Vaccaro, la sua opera mancava ancora di una lettura
d’assieme. La presente monografia vede la luce non tanto
o non solo per ragioni commemorative, di circostanza, quanto
per colmare sia pur in ritardo quella lacuna di conoscenze che
aveva sinora impedito di valutare sinotticamente e adeguatamente
la figura di un artista singolare, ricettivo, aggiornato, di
sommo mestiere, la cui produzione è anche uno spaccato
della cultura figurativa italiana fra le due guerre mondiali
e – ancor più – a cavallo fra i due secoli.
Bisogna premettere con chiarezza che questo volume rappresenta
un primo risarcimento, non escludendo futuri approfondimenti,
studi e addenda qualora se ne presentassero l’occasione
e la necessità. Non si intende qui, in alcun modo, svolgere
le funzioni di catalogo ragionato o sistematico, bensì
si vuole fornire un primo palinsesto attendibile, attraverso
la documentazione di un congruo numero di opere, sia plastiche
sia grafiche sia pittoriche, scampate alla distruzione operata
volontariamente dall’autore (verso la metà degli
anni Cinquanta, preso dallo sconforto per la sua malattia, Vaccaro
distrusse molti lavori, soprattutto gessi). Questi numerosi
documenti, rimasti a lungo devotamente custoditi presso l’archivio
di famiglia a Milano, vengono qui riproposti dagli eredi e dal
curatore del volume, nella convinzione di svolgere così
un’impresa culturalmente meritoria, perché Vaccaro
vi è totalmente rappresentato.
Tale serena rivendicazione nasce dall’analisi e dall’accertamento
obiettivo dei fattie dei valori in campo, che sorprenderanno
positivamente il lettore e che autorizzano ad annoverare Vaccaro
fra i maestri di prima schiera nell’ambito della corrente
pittorica, ma più latamente culturale, del verismo italiano
del tardo Ottocento, in modo elettivo nella sua versione meridionalista.
L’opera di Vaccaro va infatti interpretata in relazione
all’esperienza e alla lezione di artisti del Sud Italia
come Filippo Palizzi, Giuseppe De Nittis, Francesco Paolo Michetti,
Michele Cammarano, Vincenzo Gemito, che seppero intercettare
le epocali novità del moderno tramite una poetica figurativa
caratterizzata da un attento studio della realtà e da
una ricerca del vero sentita come suggerimento di genere ma
anche e soprattutto come scelta etica.
La personalità di Vaccaro risulta decisamente orientata
verso quella che Luigi Capuana, uno dei padri della letteratura
verista, chiamò “poetica del vero”. Anche
l’ambiente in cui egli si forma come giovane artista –
la natìa Palermo dei primi due decenni del Novecento
– era allora immersa nel clima culturale del verismo meridionale,
quello della Sicilia descritta nelle pagine dello stesso Luigi
Capuana, di Giovanni Verga, di Federico De Roberto; della Napoli
di Salvatore di Giacomo e di Matilde Serao; della Sardegna di
Grazia Deledda; in analogia a quanto avveniva in campo musicale
col melodramma di Leoncavallo. Ritroviamo costante nell’opera
matura di Vaccaro l’interesse non a soggetti “aulici”
ma piuttosto alla realtà ordinaria della vita, al mondo
del popolo, dell’infanzia, degli animali, guardato senza
atteggiamenti pietistici ma con partecipazione e compassione
autentica. Tale coinvolgimento d’animo e di sentimento,
sempre apprezzabile all’esame dei suoi lavori, dalle memorabili
sculture alla prolungata stagione della pittura, discosta e
distingue Vaccaro rispetto a quel “principio dell’impersonalità”
teorizzato dal verismo, assegnandogli una nicchia particolare
nell’ambito di un filone culturale che, dall’unità
d’Italia fino alla metà del XX secolo, interessò
varie generazioni di artisti.
Scuola napoletana e scuola palermitana sono perciò l’ambito
ideale in cui Vito, ragazzo irrequieto dal talento chiarissimo
(era nato il 15 aprile 1887), comincia la propria formazione
intraprendendo quell’avventura artistica che, dopo la
parentesi della prima guerra mondiale, lo porterà ad
affermarsi a Milano, esattamente com’era accaduto alcuni
anni prima a un suo illustre conterraneo, lo scrittore Giovanni
Verga. Ciò premesso, constatiamo che gli esordi giovanili
di Vaccaro lo vedono operare nell’ambito pressoché
(anche se non del tutto) esclusivo della scultura: è
principalmente l’arte plastica che lo fa subito apprezzare
nel milieu artistico palermitano, come attestano fonti, cronache
e documenti dell’epoca. Dopo aver frequentato –
vincitore di una borsa di studio – l’Accademia di
Belle Arti dov’è allievo dello scultore accademico
Mario Rutelli (1859-1941), autore in città di numerosi
monumenti pubblici improntati alla retorica postrisorgimentale
e unitaria, Vaccaro riceve nell’ottobre 1913 al Teatro
Massimo un primo significativo riconoscimento: risulta infatti
primo classificato al concorso dell’Istituto di Belle
Arti. Nell’occasione, una recensione del “Giornale
di Sicilia” così scrive: “Grazioso un gesso
del Vaccaro, Bimbo che ride”. L’anno seguente, il
28 febbraio, sempre al Teatro Massimo, gli viene conferita da
parte dell’Associazione nazionale insegnanti di disegno,
la medaglia d’argento “per le sue opere di scultura”,
come recita la motivazione ufficiale redatta dalla commissione,
formata dal fior fiore dei docenti di allora. A questa data,
le opere dell’artista, che può fregiarsi del titolo
di “professore”, denotano le virtù peculiari
dello scultore di razza: disegno fermo e consapevole, modellato
sorvegliato e delizioso, in piena consonanza di soggetti col
sentire verista.
Il periodo della Grande Guerra, che Vaccaro combatte col grado
di tenente sul fronte italiano in Serbia, risulta povero di
notizie. Rimpatriato, l’artista si trasferisce a Milano
nel 1920, per proseguirvi la carriera di scultore e di insegnante,
prendendo studio in un ampio locale al piano terra di Largo
Treves 2, nel quar- tiere di Brera. Già nel 1919, però,
aveva esposto in una personale alla Vinciana, importante galleria
milanese. Per la vicenda personale di Vaccaro l’approdo
nella metropoli lombarda segna una svolta cruciale, marca l’inizio
di una lunga fortuna critica e professionale. Gli anni Venti
sono per lui fecondi di soddisfazioni. Vaccaro frequenta l’ambiente
artistico milanese, conosce i maestri del momento, partecipa
a concorsi, espone più volte alla Reale Accademia braidense,
alla Famiglia Artistica e in città capitali dell’arte
come Venezia (dove partecipa alla XV Esposizione Internazionale
d’Arte, invitato da una giuria presieduta fra gli altri
dai grandi scultori Leonardo Bistolfi e Libero Andreotti), Torino,
Roma, dove nel 1923 può esporre “per distinti meriti”
la sua opera Il filosofo alla Seconda Esposizione Internazionale
di Belle Arti. Nel mondo delle Belle Arti italiane di questo
periodo, il ruolo di Vaccaro è senz’altro quello
di una personalità in vista, aperta alle novità
dell’attualità ma essenzialmente legata all’inconfondibile
matrice meridionale e di fine Ottocento. A questo riguardo,
illuminante è un articolo senza firma del quotidiano
“Il Secolo” in data 2 febbraio 1923, in margine
a una seconda personale dell’artista alla Vinciana: “Agli
occhi sempre un po’ indifferenti e sospettos della critica,
i bronzetti dello scultore Vito Vaccaro possono apparire, a
prima vista, pei piacenti soggetti e la manierosa maniera, come
una modesta derivazione, in ritardo, di quella piccola scultura
napoletana che ebbe in Gemito e inAmendola i suoi insuperabili
campioni, cioè una opportunistica ripresa per solleticare
il sempre facile gusto del pubblico. Ci viene detto, invece,
trattarsi del sincero, volenteroso sforzo d’un giovane
artista siciliano stabilitosi nella nostra città come
insegnante… e allora ciò che poteva parere una
pecca, anzi un peccato, diventa, se non un merito personale,
una spontanea caratteristica”. Gli anni Venti e Trenta
segnano l’apice di Vaccaro quale artista plastico: le
sue sculture, caratterizzate da grande finezza di eseguito e
da intenso sentimento, vengono accolte – a Milano e ovunque
– con consenso e stima. Nel 1922, l’opera Bimbo
che ride, memore dei modi del realismo d’età classica
romana, viene citata addirittura da la “Revue Moderne
Illustrée” di Parigi, che nella circostanza scrive:
“Vito Vaccaro è soprattutto l’interprete
della infanzia, e laddove dà il meglio di sé stesso,
è in opere fini e deliziose come Bimbo che ride”.
Giudizio pienamente confermato da varie opere plastiche di quel
periodo come Il ghiottone (bronzo, 1920), Innocenza (meraviglioso
marmo del 1921), la Portatrice d’uva (bronzo, 1923), Bimba
con cerchio (bronzo, 1925), Bambino al mare (gesso dello stesso
anno), la dolente Seconda maternità (bronzo, 1926), L’offerta
(bronzo, 1928): una ravvicinatissima suite di piccoli capolavori
in cui Vaccaro dimostra di maneggiare da padrone – con
immagini infantili di somma tenerezza e perfezione, con la cura
del modellato e delle superfici – la scultura “di
genere”, la lezione “minore” che dall’Ellenismo
e dalla tarda antichità giunge fino alla scultura napoletana
dell’Ottocento.
La prestigiosa rivista parigina ritorna sull’arte scultorea
di Vaccaro nel numero del 30 agosto 1926 in cui, a firma di
Clément Morro, si legge: “In Vito Vaccaro vedo
nello stesso tempo uno scultore e un disegnatore. Scultore,
egli presenta un mestiere potente, forte, più robusto
che delicato, più romano che greco; disegnatore, è
dotato della medesima solidità, ma con un sentimento
più affinato del dettaglio”. Notevole è
un “trittico” bronzeo di tema zoomorfo (La pecora,
Il cavallo e Il cane), dalle mirabili patine, eseguito fra il
1930 e il 1938, che documenta la predisposizione di Vaccaro
per i soggetti “bassi”, non epici. Entusiastica
è la recensione pubblicata dal giornale siciliano “L’Ora”
il 12 dicembre 1928 in occasione della personale del conterraneo
Vaccaro alla Galleria Geri di Milano. Nell’articolo, infatti,
si legge: “Una grande sala di questa Galleria ospita le
opere di un nostro scultore: Vito Vaccaro. Egli ha esposto sculture
in bronzo e in marmo, disegni a carbone, pastelli in bianco,
sanguigne, etc. Il Vaccaro si rivela anzitutto un fortissimo
disegnatore e un artista originale. Nel Vaccaro si riscontrano
insieme le doti dello scultore e del disegnatore. Nei suoi lavori
non v’è traccia d’impressionismo: v’è
uno studio accurato del nudo e dell’anatomia umana. Egli,
oltre a questa conoscenza, acquisita con lungo studio e grande
amore, unisce una rara acutezza di penetrazione ed una robusta
genialità di concezione. Vigoroso il bronzo del Montanaro
siciliano, dove risaltano le pieghe del mantello nelle varie
parti del corpo che seguono e ricoprono; vivo, parlante il Bimbo
che ri - d e; indovinatissima nella posa e nella espressione
naturalissima, la donna che guarda i Vecchi ricordi”.
Meno pittoricistiche e più levigate, ma sempre comunque
vivide sono alcune figure che confermano Vaccaro quale maestro
della fisiognomica e della rappresentazione dei sentimenti:
il concentrato e piacente Volto di donna (bronzo del 1920),
la Testa di vecchia (gesso del 1921, frontale come un’erma
antica), il Pen - siero lontano (gesso datato 1925, dove la
giovane modella ci appare mesta e assorta), Civetteria (gesso,
1930, magistrale e misurato nel ritrarre una ragazza nuda allo
specchio).
La critica coeva riconosce quindi unanimemente in Vaccaro franchezza
d’intenzioni accompagnata però da una solida conoscenza
e cultura dello storico retaggio della scultura italiana che
va dall’età antica al Rinascimento, dal bozzettismo
ottocentesco ai Valori plastici. Esemplare è la mostra
tenuta da Vaccaro nell’inverno 1924 presso il Salone Municipale
di Gallarate, il cui catalogo illustra due stupende opere in
bronzo quali Girotondo e Maternità, scrivendo: “In
un fervore di tenace e quasi ininterrotto lavoro, la silenziosa
attività di Vito Vaccaro si è imposta. Dall’isola
dove mosse i primi passi, dove lo studio del vero e il confronto
con l’Arte degli antichi si alternarono al pensiero rivolto
all’avvenire, nella ricerca di vie inesplorate, la personalità
dell’artista s’è andata affermando largamente,
in virtù principalmente della sua sincerità d’espressione.
Nella mostra gallaratese lo troviamo quest’anno con cinque
opere tutte degne d’attenzione, concepite in uno spirito
ben alto. In Maternità e Girotondo vi è un misto
di sentimento e di tenerezza che parlano insieme allo spirito
e alla sensibilità. Una vita intensa promana da quelle
e dalle altre figure, nelle quali l’artista applica la
sua tecnica semplice e robusta che già ebbe a colpirci”.
Sempre nel 1924 Vaccaro realizza a Milano due opere scultoree
di destinazione pubblica, ovvero lapidi commemorative degli
alunni caduti in guerra, collocate nella scuole “Cesare
Correnti” e “Paolo Frisi”, istituto dove egli
insegna: qui, un resoconto ufficiale ricorda che “La lapide,
in marmo di Carrara, con caratteri romani e decorazioni scolpite,
è un pregevole lavoro ideato ed eseguito dal prof. Vito
Vaccaro, ordinario di disegno”. A queste opere, tutt’ora
visibili in loco, si affiancano negli anni a seguire varie realizzazioni
scultoree di carattere cimiteriale, progettate per il Cimitero
Monumentale di Milano, vera e propria “città dei
morti” che fu anche laboratorio della scultura italiana
del XX secolo. Si tratta di opere in cui Vaccaro denota un’assimilazione
libera e originale degli stilemi novecenteschi, dal simbolismo
al classicismo anni Trenta, un complesso retaggio culturale
evidente nel Cristo bronzeo, in una stupenda figura allegorica
femminile (una fanciulla recante una lucerna e raffigurante
l’amore coniugale), dalla raffinatissima esecuzione, nella
monumentale e solenne Pietà eseguita per il sepolcro
della famiglia Dal Molin, così ricordata, nel 1929, sulle
pagine del settimanale “Lo scultore e il marmo”:
“La tomba Dal Molin in granito e bronzo di Vito Vaccaro
il quale ispirandosi al dramma del Golgota ne ha composto la
scena culminante dicendo il dolore della Madonna e del Cristo
con commozione”.
Il biennio 1925-26 segna presumibilmente l’esordio della
stagione pittorica di Vaccaro, il quale – sospinto anche
dall’attività didattica di docente – si dedica
per tre decenni, praticamente sino alla fine della vita (l’ultima
opera datata conosciuta è del 1957, La chiesa di Sant’Angelo
a Milano) ai filoni tematici propri della tradizione da cavalletto:
ritratti, figure, nudi, nature morte, paesaggi e vedute, in
special modo di Milano. Una copiosa produzione ampiamente documentabile
appunto a partire dal 1926 col dipinto Il Naviglio a San Marco,
che mostra i luoghi adiacenti lo studio con una stesura liquida,
vivida, fresca, quasi impressionistica, in una tavolozza dai
toni chiari, delicati, luminosi. Del 1930 sono due bellissimi
pastelli in bianco su foglio nero, che confermano l’attenzione
verista di Vaccaro alla realtà e al mondo degli umili:
Vecchio in preghiera e Vecchio pensoso, in cui il medesimo modello
senile viene ritratto a mezzo busto in posture leggermentediverse,
ma entrambe improntate a un sentito patetismo. Successivamente
al 1932 risalgono due vedute della città natale: La cupola
della chiesa di Casa Professa nonché San Giovanni degli
Eremiti, entrambe caratterizzate da una virtuosa concisione
di mezzi pittorici, dal pennellare esatto e deciso; qualità
ritrovabili in Riflessi al porto (1933), quadro ricco di controluci
e, nell’analogo Tramon - to siciliano (1936), prezioso
di rosate tonalità serotine. Databile al 1938 è
un evidente bellissimo pendant formato da due olii intitolati
rispettivamente Vecchio gentiluomo e Pensando, raffiguranti
la medesima canuta e barbuta persona anziana, ritratta in sapienti
controluce caravaggeschi, in pose che esprimono la solitudine,
la melanconia e la stanchezza della vita al suo vespro. Tutta
questa produzione a olio e acquerello di Vaccaro consta di quadri
di medio o piccolo formato, connotati da una gestualità
veloce, sommaria, fluida, vibrante, in una materia a volte magra
a volte più corposa ma sempre mirando a restituire l’incanto,
l’atmosfera, il sentimento intimo del momento. Nel corso
degli anni Quaranta compaiono e ricorrono i temi da interno
quali la figura in posa e la natura morta, come in Bimba con
fiocco, La lettura, Nudo (reso particolare da un trattamento
a piccoli tocchi, quasi alla Seurat), L’arancia sbucciata,
l’opulenta Na - tura morta con mele, Brocca e vaso rosso,
Natura morta con fiori. Evidenti affinità di ambientazione
e di atmosfera presentano Nonna e nipote e Bimba con brocca,
entrambi del 1945, una virtuosistica esecuzione che traduce
sentimenti di dolce intimità domestica.
Tutti soggetti, questi, che seguitano anche nel volgere degli
anni Cinquanta, in pratica nella fase della maturità
ultima di Vaccaro, accompagnati però da una preponderante
tematica paesaggistica. Innumerevoli sono i dipinti in cui l’artista
ritrae la sua amata Milano, qual era prima della grande trasformazione
urbanistica postbellica e degli anni del boom economico, fornendo
una documentazione che oggi si rivela indispensabile per respirare
l’atmosfera meneghina ormai scomparsa. Angoli di una Milano
poetica e familiare, a volte brumosa come in Corso Vittorio
Emanuele, dove la mole del Duomo, vista attraverso il vaporoso
tremolio atmosferico, ricorda emblematicamente le gigantesche
cattedrali di Monet e di Ensor. Ancora l’immagine del
Duomo si ripresenta nell’omonimo, piccolo dipinto del
1955 con una scrittura pittorica febbrile e luminosa, in una
miriade di minuti tocchi di pennello. Altrettanto partecipati
sono soggetti quali Il Naviglio ( 1950), La Martesana all’inizio
di via Melchiorre Gioia (dello stesso anno) e Autunno a Vil
- la Simonetta, tre quadretti caratterizzati dalla maniera rapida,
dal mirabile virtuosismo. L’eccezionale personalità
di Vaccaro quale vedutista si apprezza in una serie di dipinti
en plein air eseguiti sul posto durante le vacanze con la famiglia
o le gite fuori porta. Flagrante trittico ligure è formato
da quadri come Ombrelloni e v e l e, Il porto di Santa Margherita
Ligure e La spiaggia di Santa Margherita, realizzati fra il
1951 e il 1957, che sono un trionfo di azzurri marini, in una
scrittura commossa e alitante, dal ductus spigliato, fuso e
soffuso. Ancora la Liguria compare, coi medesimi modi di prima
intenzione, ne La passeggiata di Pegli. Altrettanto mirabili
sono i fogli ad acquerello nei quali, oltre alla figura, ricorre
il tema dei fiori, che l’artista sente con particolare
inclinazione, realizzando vari soggetti (rose, anemoni, peonie
etc.) con scrittura liquida e luminosa. In questi anni, Vaccaro
è ormai un artista noto e affermato, e i suoi lavori
sono costosi: nel maggio 1945, una sua opera intitolata La Vergine
(un aggraziato profilo muliebre del 1935 fuso in bronzo) presentata
in una mostra d’arte sacra all’Angelicum di Milano,
viene valutata 4000 lire, come si evince da una lettera dell’ufficio
vendite all’artista.
Una militanza artistica e pittorica, quella di Vaccaro, conclamata
in ambiente milanese da importanti esposizioni personali, come
quella tenutasi nel 1951 presso la Galleria Bolzani, fino al
declino fisico cominciato nel 1953, quando l’autore (che
si spegnerà nel 1960) chiude lo studio rompendo i gessi
e distruggendo tutto il materiale inerente la sua storia, salvo
i quadri e le opere conservate in famiglia, che formano ora
il corpus di questa monografia. A conclusione di questo excursus,
possiamo a ragion veduta affermare che questa riscoperta postuma
della figura di Vito Vaccaro – artista versatile, gran
disegnatore, scultore di certificabili mezzi, squisito colorista
– aggiunge una tessera ragguardevole, dovuta e attesa
al mosaico dell’arte italiana del Novecento, svelando
le qualità umane ed espressive di un protagonista che
merita un proprio posto.
Domenico Montalto |