| Il profumo della 
          poesia E’ proprio negli anni in cui la pittura scopre la vertigine del 
          bianco, il vuoto, la seduzione della forma come rivoluzionari codici 
          dell’indicibile che Riccardo Brambilla, ostinatamente, insegue 
          il suo sogno di una pittura capace di racchiudere nello spazio virtuale 
          del quadro il soffio dell’infinito, la poesia della natura. La 
          fedeltà al reale e alla pittura di paesaggio, nel caso di Brambilla, 
          non va certo letta come tarda “ scoperta “ della lezione 
          impressionista, come pigra consuetudine alla tradizione naturalistica 
          lombarda o incapacità di seguire le correnti impetuose che in 
          quell’epoca sconvolgevano la nozione stessa di immagine. A riprova 
          di ciò, se non bastassero gli studi accademici e il lungo sodalizio 
          con artisti come Gola e Frisia, anche loro appassionati interpreti di 
          quel vero intiero e di quel bello nel vero negati allora da quanti sostenevano 
          che bellezza e verità ormai andassero ricercate solo nell’invenzione, 
          sta il fatto che a sostenere i limpidi cieli di Brambilla è un 
          articolato sistema di considerazioni etiche ed estetiche che trovano 
          compiuta espressione nelle pagine dei suoi diari, quei soliloqui di 
          cui finora sono stati pubblicati solo alcuni passi. Da quelle pagine 
          emerge infatti con estrema chiarezza e veemenza il rifiuto, motivato 
          religiosamente, che la natura potesse ormai essere considerata una cosa 
          inutile, superata. Superata da che cosa? Dall’ottusa arroganza 
          di un uomo che creda valga la pena di rappresentare la natura unicamente 
          in funzione dei termini astratti in cui la pensa e non la vede, superata 
          dalla superbia di artisti che ignorano il fatto che negare la dimensione 
          oggettiva della natura equivale a negare l’esistenza stessa dell’uomo.Credere che i pittori dell’800 abbiano esaurito il “poema 
          paesaggio “ è come credere che gli attuali scienziati abbiano 
          svelato con la scomposizione dell’atomo il mistero dell’universo 
          scrive l’artista nel ’49. Architettare un quadro nel quale 
          lo sguardo si sprofondi nella solennità dell’infinito e 
          che dia allo spirito il fremito del divino mistero! Che la poesia vi 
          aleggi come un profumo. E dieci anni dopo: Potessi raccogliere i riflessi 
          di un attimo di tramonto in un quadro come una modesta conchiglia li 
          raccoglie nella sua madreperla. Infine un mese prima di morire, a novantaquattro 
          anni: La bontà è il profumo dello spirito, la bellezza 
          è il profumo della materia modellata dallo spirito. Bontà 
          e bellezza si possono considerare due rette parallele che prospetticamente 
          convergono allo stesso traguardo… l’infinito.
 Per Brambilla sarà così per tutta la vita. Ogni quadro, 
          ogni paesaggio sarà vissuto con l’intensità e la 
          solennità di un atto di preghiera, avrà tutta l’umiltà 
          di un accorato ringraziamento. Il dramma e la commedia dell’uomo 
          possono distoglierlo per un attimo dal suo sogno pittorico, ma solo 
          per un attimo appunto. Non a caso le rare figure dell’artista 
          introducono sempre nella composizione pittorica un che di fragile, di 
          malinconico, che sembra turbare il tranquillo ordine naturale. Sono 
          presenze statuarie, non l’apparenza monumentale, ma per quel loro 
          stare nello spazio come qualcosa che impedisce di vedere oltre: in quel 
          cielo di Cerere nova che sfuma all’orizzonte in una gamma di terse 
          trasparenze o in quella stanza della memoria indefinita, ma intuita 
          dietro la vela di quella barchetta che Il figlio Alberto leva alta.
 Apparizioni che non offrono, dunque, quell’appagante boccata di 
          infinto dei paesaggi. Perché questo poi, secondo Brambilla, è 
          lo scopo dell’arte che, quando non è vuota esercitazione 
          accademica, dovrebbe approdare non ad una piatta riproduzione veristica 
          ma alla creazione di un altro vero, il vero dello spirito. Risultato 
          inseguito caparbiamente dall’artista che a novant’anni si 
          ritrova a scrivere: Nessuno, neanche lontanamente, pensa che io mi accosti 
          alla bellezza di quei paesaggi quasi con un senso religioso, e che il 
          mio lavoro raggiunge talvolta l’ansia di una corsa verso un traguardo, 
          che si allontana sempre innanzi al mio cammino come l’ombra di 
          chi ha il sole dietro le spalle. Dopo avere scritto: Ohimè, la 
          parola chiara, sicura, col lampo vivo dell’immagine, da lungo 
          accarezzata, non mi è riuscito di dirla! Il quadro che risplenda 
          della luce di tutte le aurore, di tutti i meriggi, di tutti i tramonti 
          della mia Brianza e nel quale pulsi la vita della mia gente è 
          ancora nel sogno. Eppure quanta poesia.
 Nelle pagine pittoriche di quel lungo diario per immagini che è 
          l’opera di Brambilla, si respira la commozione dell’artista 
          davanti alla bellezza della natura: nell’accuratezza della composizione, 
          nelle armoniose scelte cromatiche, in quella soavità dell’ispirazione 
          già notata da Dino Buzzati. Ma inevitabilmente, nella Milano 
          di inizio secolo, quando i futuristi proclamano la loro rivolta al chiaro 
          di luna, negli anni della ricerca classico-purista del Novecento e poi 
          nel dipingere chiaro il destino critico di un artista come Brambilla 
          è segnato. Che può pretendere dalla Critica delle nuove 
          generazioni un pittore che confessa ingenuamente di non avere, né 
          di volere avere vantata originalità dei millantati nuovi geni? 
          è lui stesso a scrivere: anche se non mancano voci in sua difesa, 
          come quella di Leonardo Borgese che, sulle pagine del Corriere della 
          Sera, a quanti denigravano l’attitudine di Brambilla a ritrarre 
          galline ribatte: anche Spadini fu chiamato “ pittore da pollaio 
          “ sprezzantemente da certo novecentisti pittori dell’aquila 
          imperiale.
 Spente le polemiche, ad ogni modo, resta la consapevolezza che Riccardo 
          Brambilla abbia espresso, volontariamente, nella pittura italiana della 
          prima metà del novecento valori che niente hanno a che fare con 
          le mode culturali. Ed è proprio il fatto che la sua sia una posizione 
          sostenuta da un complesso sistema ideale a riscattare la sua opera dalle 
          accuse di anacronismo, provincialismo e chissà che altro. Riccardo 
          Brambilla non è uno stanco epigono della grande stagione del 
          realismo ottocentesco. ma un appassionato interprete della grande poesia 
          della natura, una poesia che non ha tempo, accordando il suo ritmo a 
          quello dell’eternità.
 Marina Pizziolo |