A regola d'Arte

di Roberto Mottadelli

Una schiera di pannocchie di mais se ne sta appesa a uno scaffale di legno, tranquilla come sul loggiato di una cascina. Poco più in là, tre cappelli di paglia. Insieme vegliano sui frutti distribuiti con apparente noncuranza un metro abbondante più in basso, sul piano della credenza e sul tavolo – soprattutto mele e agrumi, siamo già in autunno. Intorno conchiglie e fiori secchi. Vasi e bottiglie d’ogni forma e colore, e un fantasioso bric-à-brac di oggetti che un tempo devono aver avuto una loro utilità. Sveglie di metallo, per esempio, e perfino uccelli impagliati. E poi busti, gessi, teste in terracotta.
Una quantità indefinita di volumi mette a dura prova la resistenza di librerie già strette d’assedio da un esercito di quadri incorniciati, bozzetti, disegni, fogli, tele, cartoni: dipinti che sembrano vivere di vita propria, espandendosi inesorabili fino a conquistare ogni spazio libero.
In mezzo, su una decina di cavalletti e tavoli di lavoro, asciugano acquerelli appena dipinti e riposano pennelli, colori e tavolozze.

Non è un’aula, quella in cui si tengono le lezioni della scuola creata vent’anni fa da Ettore Maiotti, Luisella Lissoni e Luigi Simeoni. Ma non è nemmeno un atelier. L’unica definizione possibile è quella di bottega, intesa nel senso più antico e nobile. Un luogo dove al tempo stesso si lavora e si perpetua un sapere – meglio, un saper fare – che dal maestro fluisce verso un numero limitato di allievi. Apprendisti, potremmo definirli, disposti a faticare per conquistare
i segreti del mestiere.
È quello che accadeva nelle botteghe dei pittori e degli scultori medievali e rinascimentali. E che, mutatis mutandis, si verificava nelle accademie fino alla prima metà del XX secolo. A Brera, per esempio. Botteghe e accademie in cui si formavano non solo polverosi passatisti e onesti mestieranti, ma anche figure destinate a rivoluzionare l’intera storia dell’arte. Basti pensare a Pablo Picasso e alla sua infanzia accanto al padre Don José, insegnante di disegno alla Scuola di Belle Arti di Malaga, e poi al suo periodo di studi presso l’Accademia di Barcellona. O, per tornare in Italia, ai fratelli Mirko e Afro Basaldella, che prima di diventare punti di riferimento per l’arte informale europea impararono a dipingere e scolpire nel solco della tradizione veneta e toscana, tra gli istituti d’arte e le accademie di Venezia e Firenze. E frequentarono anche l’atelier del grande Arturo Martini: che a sua volta spiegava di buon grado come usare subbie, gradine e bocciarde agli studenti della Scuola d’Arte Applicata di Monza.
A bottega o in accademia, insomma, si apprendevano l’alfabeto e la sintassi del fare arte a regola d’arte. Poi l’allievo poteva scegliere come combinare lettere e parole – fuor di metafora linee e colori, forme, spazi e superfici – per esprimere concetti nuovi, magari polemici nei confronti della tradizione, del maestro e dell’accademia stessa. Perché per superare una regola, perfino
per arrivare a odiarla, prima è necessario studiarla, conoscerla a fondo.

Eppure negli ultimi sessant’anni, complice anche l’idea della morte della pittura (e della scultura intesa in senso tradizionale), le accademie d’arte occidentali paiono aver rinunciato al loro ruolo storico. Si sono via via appiattite sul modello delle università – sempre più teoria e sempre meno pratica, sempre più ore in aula e sempre meno in laboratorio – dimenticandosi di perpetuare la conoscenza approfondita delle tecniche artistiche, i segreti del disegno e del modellato.
Accade anche che i docenti pongano al centro dell’insegnamento la loro esperienza individuale, il loro concetto personale di arte, e che finiscano con il plasmare molti studenti a propria immagine e somiglianza. Si dimenticano di trasmettere agli allievi il patrimonio di creatività e l’insieme di soluzioni tecniche che si sono sedimentati in secoli di storia.
Ne deriva il paradosso di generazioni di artisti “contestatori per procura”, che si ribellano ai maestri della pittura del passato in ossequio agli insegnanti del presente.

Il declino delle accademie va inquadrato in un contesto storico particolare. In fondo, si tratta di un corollario di un fenomeno assai più ampio: la fine dell’epoca dell’artigianato e delle botteghe tout court, soppiantati dalla massificazione del gusto e dall’affermazione strabordante della produzione industriale, guidata dalle analisi di mercato e spesso rispondente a bisogni indotti artificialmente nei consumatori. Una realtà figlia anche della perdita di rilevanza della vecchia Europa a favore degli Stati Uniti.
È accaduto lo stesso anche in ambito artistico e culturale: nulla può testimoniarlo meglio del successo riscosso da Andy Warhol e dalla sua Factory newyorkese, che fin dal nome si poneva non come bottega ma come “fabbrica” d’arte, musica e spettacolo.

La scuola di Maiotti, Lissoni e Simeoni è nata attorno al 1996 per colmare il vuoto lasciato dalla caduta dell’ultimo baluardo milanese dell’insegnamento artistico. Il riferimento è alla gloriosa Scuola d’Arte del Castello Sforzesco, svuotata dall’interno da discutibili scelte politiche e culturali. La palestra nella quale lo stesso Maiotti si era formato, prima come grafico e illustratore e poi come pittore, dedicandosi in modo particolare alla tecnica dell’affresco.
Lo sfondo della sua lunga storia d’amore con Luisella Lissoni, compagna nella vita come nell’arte e nell’insegnamento.

Oggi come vent’anni fa, quando si curiosa tra i cavalletti sui quali lavorano gli allievi di Maiotti, Lissoni e Simeoni si scopre che stili e soggetti dei dipinti sono molto diversi tra loro. Nella scuola, infatti, nessun allievo è invitato a dipingere come il maestro, né a riproporre i suoi stessi temi: semplicemente gli viene insegnato l’ABC della pittura, gli vengono presentate le regole della grammatica artistica. Prima quelle fondamentali, poi quelle che servono a perfezionarsi. E il primo insegnamento è sempre una lezione di libertà: imparare a guardare il mondo, un invito a recuperare il contatto personale, immediato con il paesaggio e con la natura. In altri termini, una disintermediazione della relazione con il mondo e con l’arte.

Date queste premesse non stupisce che, nella libreria della scuola, a prevalere non siano i saggi di storia e critica d’arte ma i testi scritti in prima persona dagli artisti (le lettere di van Gogh e Cézanne, le riflessioni di Klee e Kandinskij, i pensieri di Ingres, le Vite del Vasari e le riproduzioni dei codici di Leonardo) insieme ai manuali dedicati alle varie tecniche, dall’acquerello all’encausto, dalla tempera all’affresco. Testi che molto spesso portano la firma di Maiotti e Lissoni: non per autoreferenzialità, ma perché davvero la produzione didattica dei fondatori della scuola ha avuto – e continua ad avere – un ruolo imprescindibile a livello italiano, e di notevole rilevanza anche su scala internazionale. Tanto che buona parte di questi volumi è stata tradotta in una decina di lingue, e che i documentari girati due decenni fa da Maiotti per insegnare a disegnare e dipingere continuano tuttora a circolare, a essere trasmessi
in televisione.

La scelta di proporre agli allievi una pittura figurativa non va intesa come un dogma, né tantomeno si configura come una chiusura nei confronti dell’astrazione. Semplicemente, copiare dal vero è il primo passo anche per chi poi sceglierà strade diverse: da un punto di vista tecnico, tra figurazione e astrazione esiste infatti un ponte molto più solido di quanto spesso si creda. Per rendersene conto è sufficiente pensare ai percorsi di Kandinskij e Mondrian, di Malevi? e Nicolas De Staël. E a quello dello stesso Ettore Maiotti, che ha attraversato una significativa fase astratta senza per questo perdere la capacità (e la gioia) di dipingere dal vero, anche en plein air. Con tutti i piccoli rischi e contrattempi che ciò comporta: tra le pareti della scuola – come in qualsiasi bottega d’ogni epoca – si sussurrano aneddoti relativi a spedizioni artistiche dei maestri che si sono concluse ora con clamorose insolazioni, ora con tuffi imprevisti in maleodoranti canali veneziani.
Disavventure come queste, in verità, capitavano pure a Giovanni Fattori e ai macchiaioli. E ci auguriamo che qualcosa di simile possa accadere anche agli artisti di domani. Se così sarà avremo la certezza che la pittura è rimasta viva, che la dimensione umana, passionale e dunque fallibile del fare arte è sopravvissuta all’invadenza del marketing che precede la creatività, sterilizzandone i risultati per ottimizzare la produzione. Avremo un’alternativa all’impero del business, che ha dimenticato le regole fondamentali dell’arte perché da tempo le ha sostituite
con la legge del profitto. Quello di pochi, ovviamente.
Milano, Novembre 2016

Roberto Mottadelli